IL CONSIGLIO DI STATO
   Ha  pronunciato  la  seguente  ordinanza  sul ricorso in appello n.
 5866 del 1993, proposto da Bigoni Maria Anna, rappresentata e  difesa
 dagli  avv. Roberto Gilli e Giorgio Natoli, elettivamente domiciliata
 presso il secondo, in Roma, via Cicerone n. 28;
   Contro  la  regione  Emilia-Romagna,  in  persona  del   presidente
 pro-tempore della Giunta regionale, non costituita in giudizio; e nei
 confronti del comune di Lagosanto, in persona del sindaco pro-tempore
 non  costituito in giudizio; di Bacilieri Giovanna, non costituita in
 giudizio;  per   l'annullamento   della   decisione   del   Tribunale
 amministrativo  regionale  dell'Emilia-Romagna  Bologna,  sez. II, 12
 settembre 1992, n. 452, con la quale e'  stato  respinto  il  ricorso
 proposto  per  l'annullamento  del  provvedimento  27 giugno 1989, n.
 22422/1 del Comitato regionale di controllo  sugli  atti  degli  enti
 locali della regione Emilia-Romagna, a sua volta recante annullamento
 della  deliberazione  della  Giunta  comunale  di Lagosanto 11 maggio
 1989, n.  162,  di  nomina  della  ricorrente,  quale  vincitrice  di
 concorso, nel posto di bibliotecaria del comune;
   Visto il ricorso con i relativi allegati;
   Vista la memoria prodotta dall'appellante;
   Vista la propria ordinanza 2 ottobre 1993, n. 1458, con la quale e'
 stata  respinta  la  domanda  di  sospensione dell'esecutivita' della
 sentenza appellata;
   Vista la propria sentenza non definitiva 13 maggio  1996,  n.  537,
 con la quale e' stato accolto in parte l'appello;
   Vista  la propria ordinanza 13 maggio 1996, n. 538, con la quale e'
 stata sollevata questione di  legittimita'  costituzionale  dell'art.
 8,  alinea  n. 7, del testo unico della legge comunale e provinciale,
 approvato con r.d. 3 marzo 1934, n. 383, in relazione agli artt.   3,
 primo comma e 51, primo comma della Costituzione;
   Vista  la  sentenza  della  Corte costituzionale 18 luglio 1997, n.
 249,  che  ha  dichiarato  non  fondata  la  predetta  questione   di
 legittimita' costituzionale;
   Visti gli atti tutti della causa;
   Udita  alla  pubblica  udienza dell'11 maggio 1999 la relazione del
 consigliere Giaccardi e udito, altresi',   l'avv.  Luigi  Manzi,  per
 delega dell'avv. Natoli, per l'appellante;
   Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue;
                               F a t t o
   L'odierna appellante, Bigoni Maria Anna, si classifico' prima nella
 graduatoria  del  concorso  pubblico  per  un  posto di assistente di
 biblioteca indetto dal  comune  di  Lagosanto  con  deliberazione  di
 Giunta 23 marzo 1987, n. 195.
   Avendo   ella   dichiarato,  nella  domanda  di  partecipazione  al
 concorso, di non aver riportato condanne, mentre dal suo  certificato
 del  casellario risultava iscritta una condanna alla pena della multa
 per emissione di assegni a vuoto, il comune soprassedette alla nomina
 e fece rapporto all'autorita' giudiziaria.
   Ne segui' una condanna alla pena di L.  100.000  di  multa  per  il
 reato   di   false  dichiarazioni  su  qualita'  personali,  previsto
 dall'art.  496 del codice penale; dopo di che la  Giunta  municipale,
 con  deliberazione 11 maggio 1989, n. 162, procedette ugualmente alla
 nomina (con decorrenza 1 giugno 1989), sul ritenuto presupposto  che,
 a  seguito della sentenza della Corte costituzionale 14 ottobre 1988,
 n. 971, si fosse reso  inapplicabile  il  divieto  di  assunzione  di
 persone  condannate  per  delitti  contro  la  fede pubblica, sancito
 dall'art. 8, n. 7 del r.d.  3 marzo 1934, n. 383 (T.U.L.C.P.).
   L'atto  di  nomina  fu  annullato  dal  Co.re.co.   della   regione
 Emilia-Romagna,  sezione  di  Ferrara,  con  atto  27 giugno 1989, n.
 22422/2, sul rilievo  della  perdurante  vigenza  dell'art.  8  cit.,
 insuscettibile    come    tale    di    disapplicazione   a   seguito
 dell'intervenuta declaratoria  di  illegittimita'  costituzionale  di
 altre  disposizioni  di  legge,  relative  alla diversa materia della
 destituzione di diritto (in particolare, l'art. 247 T.U.L.C.P.).
   Nel provvedimento tutorio si osservava altresi' che il posto  messo
 a  concorso  non  poteva comunque essere coperto nel 1989, in ragione
 dei limiti  legislativi  alle  assunzioni  previsti  dalla  legge  29
 dicembre 1988, n. 554.
   L'atto   di   annullamento   fu   impugnato   dinanzi   al   T.A.R.
 dell'Emilia-Romagna  con  due   distinti   ricorsi,   rispettivamente
 proposti dalla Bigoni e dal comune di Lagosanto.
   In  ambedue  i  ricorsi  veniva  dedotta, in via principale, la non
 operativita' del divieto automatico di assunzione ex art. 8  cit.,  a
 seguito  dell'intervenuta  decisione  della  Corte  costituzionale in
 materia di destituzione di diritto;  in  subordine  veniva  sollevata
 questione  di legittimita' costituzionale della suddetta disposizione
 di  legge,  ove  ritenuta  rigidamente preclusiva all'assunzione, per
 violazione degli artt. 3, 4, 25 e 97 Cost.
   Con sentenza n. 452 del 1992 il  tribunale  adito,  riuniti  i  due
 ricorsi,  li  ha  dichiarati  inammissibili  per  omessa deduzione di
 censure  nei  confronti  dell'autonomo  capo  del  provvedimento   di
 controllo  concernente  l'impossibilita' di procedere alla nomina per
 l'anno 1989, ritenuto di per se' sufficiente a sorreggere il disposto
 annullamento  tutorio.
   Avverso tale decisione ricorre in appello l'interessata, censurando
 la declaratoria di inammissibilita' del  ricorso  di  primo  grado  e
 riproponendo  sia  la  questione  dell'applicazione  dell'art.  8 del
 T.U.L.C.P.  alla fattispecie in esame, sia la  subordinata  eccezione
 di illegittimita' costituzionale della disposizione anzidetta.
   Con  sentenza  non definitiva n. 537/1996 questa sezione ha accolto
 in parte l'appello, ritenendo che il rilievo dell'organo di controllo
 relativo  al  divieto  di  far  decorrere  la  nomina  dal  1989  non
 comportasse  di  per  se'  l'annullamento della delibera controllata,
 rimanendo comunque integro l'interesse della ricorrente a beneficiare
 della nomina, sia pure con decorrenza successiva al 1989.
   Con la stessa decisione e' stata  altresi'  ritenuta  infondata  la
 tesi  relativa all'inapplicabilita' del divieto di assunzione sancito
 dall'art. 8 del T.U.L.C.P.
   Con ordinanza n. 538/1996, in  pari  data,  la  sezione  ha  quindi
 sollevato  questione  di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  8,
 alinea n. 7, del testo della legge comunale e provinciale,  approvato
 con  r.d.    3  marzo  1934, n. 383, in relazione agli artt. 3, primo
 comma e 51, primo comma della Costituzione.
    Con sentenza 18 luglio 1997, n. 249, la  Corte  costituzionale  ha
 dichiarato   non   fondata  la  predetta  questione  di  legittimita'
 costituzionale.
    L'appello e' quindi tornato in decisione dinanzi a questa  sezione
 alla pubblica udienza dell'11 maggio 1999.
                             D i r i t t o
   1.  -  Come  risulta dalla premessa esposizione in fatto, nel corso
 del presente giudizio d'appello la Corte costituzionale e' gia' stata
 investita,  con  ordinanza  n.  538/1996  di  questa  sezione,  della
 questione  di  legittimita'  costituzionale dell'art. 8, alinea n. 7,
 del r.d.  3 marzo 1934, n. 383 (Testo unico della  legge  comunale  e
 provinciale),  in  relazione  agli  artt.  3, primo comma e 51, primo
 comma Cost.
   Veniva evidenziato, nella  suddetta  ordinanza  di  rimessione,  un
 unico  profilo  di non ragionevolezza della scelta legislativa con la
 quale si e' vietato, con rigido automatismo e senza  possibilita'  di
 valutazione   discrezionale  del  caso  di  specie,  l'assunzione  ai
 pubblici impieghi di persone condannate per determinati  reati.  Piu'
 precisamente,  si  assumeva  da parte della sezione - con espresso ed
 immediato riferimento alla ben nota giurisprudenza costituzionale  in
 tema  di destituzione di diritto: sentenza n. 971/1988 e successive -
 "che  il  titolo  di  reato,  al  quale  soltanto  si  riferisce   la
 disposizione  sospettata  di  incostituzionalita'  (come  gia' quella
 sulla destituzione)  puo',  nei  singoli  casi,  classificare  fatti,
 insignificanti dal punto di vista della pericolosita' sociale e della
 capacita'  a  delinquere,  del tutto diversi dal tipo di fatti che la
 coscienza collettiva comunemente vi associa, e rispetto ai  quali  il
 divieto  di  assunzione  nei  pubblici  uffici puo' costituire misura
 sproporzionata.
   2. - In  relazione  a  tale  (limitata)  prospettazione,  la  Corte
 costituzionale,  con  sentenza  n.  249  del  1997, ha dichiarato non
 fondata la questione sollevata, osservando:
     a) che non puo' essere invocato  un  parallelismo  tra  l'ipotesi
 dell'assunzione  e quella della destituzione, mancando nel primo caso
 la  possibilita'  di  dar  corso  al  procedimento  disciplinare  che
 consente  la  valutazione  della gradualita' delle sanzioni per fatti
 penalmente  rilevanti  addebitati  al  dipendente,  con   correlativa
 limitazione della discrezionalita' della pubblica amministrazione;
     b)  che  l'automatismo  del  divieto  di  assunzione derivante da
 condanna per determinati reati - specialmente quando  questi  abbiano
 riguardo  alle  funzioni  che  il dipendente e' chiamato a svolgere -
 appare in armonia  con  i  principi  costituzionali,  ponendosi  come
 filtro   di   ammissione   e   previa  garanzia  del  buon  andamento
 dell'amministrazione e della  dignita'  di  quanti  sono  chiamati  a
 ricoprire uffici pubblici;
     c)  che  la  diretta  previsione normativa dei casi di esclusione
 garantisce anche un'applicazione uniforme di  criteri,  ad  ulteriore
 garanzia dei principi di eguaglianza e di buon andamento.
   4.  -  In  sintesi,  la sentenza della Corte ha dunque ritenuto, in
 coerenza con la prospettazione offerta alla questione  dall'ordinanza
 di  rimessione,  che la sussunzione sotto un unico titolo di reato di
 fatti tra loro marcatamente eterogenei e tali da riflettere gradi  di
 pericolosita'  sociale e capacita' a delinquere notevolmente diversi,
 non sia di per se' indicativa di  irragionevolezza  della  previsione
 legislativa  che  annette  alle  condanne  riportate  per  tali fatti
 valenza rigidamente ed automaticamente  preclusiva  all'assunzione  a
 pubblici impieghi.
   Come  la  stessa  Corte  sottolinea  nella  parte  conclusiva della
 propria sentenza, peraltro,  un  diverso  aspetto  -  non  denunziato
 dall'ordinanza di rimessione, e quindi non esaminato ex professo - e'
 quello relativo alla selezione operata dal legislatore dei vari reati
 per  i  quali  sia previsto l'automatismo: profilo, questo, attinente
 alla discrezionalita' del legislatore, il cui esercizio  puo'  essere
 sindacato   solo   ove   si   ravvisi   nella  scelta  una  manifesta
 irragionevolezza.
   Sotto  tale  profilo,  ad  avviso  della   sezione,   suscita   non
 manifestamente infondati dubbi di illegittimita' costituzionale, tali
 da  giustificare  una  seconda rimessione degli atti al giudice delle
 leggi, la specifica previsione contenuta nell'art. 8,  alinea  n.  7,
 del  r.d. n. 383/1934 che esclude dalla nomina agli uffici comunali e
 provinciali, e a quelli dei relativi consorzi, "Êi condannati...  per
 delitti contro la fede pubblica".
   Come  noto, il titolo VII del codice penale racchiude sotto la voce
 "delitti  contro  la  fede  pubblica"  una  variegata   e   disparata
 pluralita'  di  reati,  suddivisi  in  quattro  diversi  capi  aventi
 rispettivamente ad oggetto la falsita' in monete, carte  di  pubblico
 credito  e valori di bollo, la falsita' in sigilli, strumenti o segni
 di autenticazione, certificazione o riconoscimento,  la  falsita'  in
 atti e le c.d. falsita' personali.
   Ulteriori  ed  eterogenee figure di delitti contro la fede pubblica
 si trovano poi catalogati in leggi speciali e  di  settore:  fra  gli
 altri,  si  ritiene  per  lo  piu' che anche il reato di emissione di
 assegni a vuoto, all'epoca dei fatti  sanzionato  dall'art.  116  del
 r.d.  21  dicembre  1933,  n. 1736, sia ascrivibile alla categoria di
 delitti in esame.
   Orbene, l'odierna appellante ha  riportato  due  condanne  ostative
 all'assunzione  all'impiego  comunale, entrambe per delitti contro la
 fede pubblica: la prima, per  un  remoto  episodio  di  emissione  di
 assegno  a  vuoto,  la seconda per il delitto di "false dichiarazioni
 sulla identita' o su qualita' personali proprie o di altri",  di  cui
 all'art.  496  cod.  pen., subita per non aver dichiarato l'esistenza
 della precedente condanna in occasione della stesura della domanda di
 partecipazione al concorso pubblico da cui ebbe a scaturire la nomina
 successivamente annullata dall'organo di controllo.
   Ambedue le condanne hanno comportato  l'applicazione  di  una  mite
 pena  pecuniaria, segno evidente di valutazione, da parte del giudice
 penale, di limitata offensivita' del fatto-reato e ridotta  capacita'
 a delinquere del reo.
   Cio'   nonostante,  l'appellante  si  e'  vista  automaticamente  e
 definitivamente precludere l'accesso al  pubblico  impiego  comunale,
 cui  legittimamente  aspirava  in qualita' di vincitrice di concorso,
 per il solo fatto che i suddetti  episodi  -  pur  catalogabili  alla
 stregua  della  coscienza  sociale in un'ampia zona grigia di confine
 tra i fatti che meritano una pena e quelli  che  non  e'  ragionevole
 assoggettare  a  sanzione  punitiva - si trovano inseriti, al pari di
 gravi fatti criminosi,  come  tali  ben  altrimenti  percepiti  dalla
 coscienza  sociale  (quali, ad esempio, la fabbricazione e spaccio di
 monete false, la contraffazione del sigillo dello Stato destinato  ad
 essere  apposto  sugli atti del Governo, ovvero la falsita' materiale
 ed ideologica commessa da pubblico ufficiale in atti pubblici), nella
 categoria legislativa dei "delitti contro la fede pubblica".
   E dunque, nella fattispecie in esame, la flagrante irragionevolezza
 dell'automatismo nell'esclusione  della  ricorrente  dall'accesso  al
 pubblico  impiego  a cui aspirava deriva non solo, e non tanto, dalla
 riconducibilita' ai singoli titoli di reato per i quali la stessa  ha
 riportato  condanna  di  fatti  materiali  di  lievissima  entita'  e
 potenzialita' lesiva, quanto piuttosto  dalla  stessa  previsione  da
 parte  del legislatore di un'unica vastissima e proteiforme categoria
 di reati - i delitti contro la fede pubblica - dotati di  livelli  di
 offensivita'  sociale  tra  loro enormemente diversificati, come reso
 evidente dalla graduazione delle rispettive pene edittali.
   E poiche', in tale variegata congerie di ipotesi di  reato  (talune
 delle   quali,   non   a   caso,  depenalizzate  dalla  piu'  recente
 legislazione) si rinvengono anche figure delittuose punibili  (ed  in
 concreto punite) con la sola pena pecuniaria, o comunque con sanzioni
 di  esigua entita', accanto ad altre sanzionate con pesantissime pene
 detentive, sembra sussistano seri elementi di dubbio in  ordine  alla
 compatibilita'  di  siffatta indiscriminata scelta legislativa con il
 canone della ragionevolezza,  costituente,  come  ricorda  la  stessa
 Corte,  limite  invalicabile  anche  per la c.d. discrezionalita' del
 legislatore.
   Sotto questo (diverso) profilo si ritiene quindi non manifestamente
 infondata la questione di legittimita'  costituzionale  dell'art.  8,
 alinea n. 7, del r.d. n. 383/1934, nella parte in cui contempla quale
 causa  ostativa  di  assunzione all'impiego presso enti locali l'aver
 riportato   condanna   per  (qualsivoglia)  delitto  contro  la  fede
 pubblica, in relazione all'art. 3, primo  comma  Cost.,  nonche',  di
 riflesso,  in  relazione  all'art. 51, primo comma Cost., relativo al
 diritto dei cittadini di accedere agli uffici pubblici.
   5.  -  Sempre  in  relazione  ai  parametri  costituzionali   sopra
 ricordati  appare,  infine,  non  manifestamente  infondato  anche un
 ulteriore profilo di illegittimita' costituzionale  dell'intero  art.
 8,  alinea  n.  7,  cit., non sollevato dalla precedente ordinanza di
 rimessione, e peraltro espressamente  dedotto  nelle  difese  scritte
 dell'appellante.
   Come noto, mentre la normativa regolatrice del rapporto di pubblico
 impiego  presso  gli enti locali conteneva due distinte disposizioni,
 rispettivamente afferenti alle condanne  ostative  alla  nomina  agli
 uffici  (art. 8 T.U.L.C.P.) e a quelle comportanti la destituzione di
 diritto (art. 247 T.U.L.C.P.), una tale distinzione  non  era  invece
 presente  nella  normativa  regolatrice  dell'impiego statale, ove la
 tipologia delle condanne penali ostative all'assunzione  in  servizio
 veniva   desunta   indirettamente,   in   via  interpretativa,  dalla
 previsione afferente  le  condanne  comportanti  la  destituzione  di
 diritto (art.  85, lettera a), d.P.R. n. 3/1957).
   Orbene,  tale  diverso assetto formale delle legislazioni - pur fra
 loro  sostanzialmente  coincidenti  -   rispettivamente   regolatrici
 l'impiego  statale  e  quello  locale,  ha  fatto  si' che la portata
 caducante delle pronunzie  della  Corte  costituzionale  in  tema  di
 destituzione  di  diritto  abbia  esplicato  inizialmente conseguenze
 alquanto  diverse  nei  due  comparti   di   impiego   pubblico.   In
 particolare, mentre nell'ambito dell'impiego locale e' stata abrogata
 la  sola  disciplina  relativa  alla  destituzione  di diritto di cui
 all'art. 247  T.U.L.C.P.,  mentre  e'  rimasta  operante,  fino  alla
 successiva  espressa  abrogazione da parte dell'art. 64 della legge 8
 giugno 1990, n. 142, la disciplina relativa alle cause automatiche di
 esclusione  dalla  nomina  di  cui  all'art.  8  dello  stesso  t.u.,
 viceversa  nell'ambito dell'impiego statale l'abrogazione della norma
 (unica) in tema di destituzione di  diritto  ha  comportato  altresi'
 l'immediato  travolgimento  della speculare disciplina (desunta, come
 detto,  in  via  meramente  interpretativa)  in  tema  di  condizioni
 ostative all'accesso all'impiego.
   Ne  deriva, per il periodo antecedente all'abrogazione dell'art.  8
 T.U.L.C.P. (nel  quale  si  colloca  la  fattispecie  attualmente  in
 decisione) un'evidente ed irragionevole disparita' di trattamento tra
 gli  aspiranti all'impiego locale e gli aspiranti all'impiego statale
 che abbiano riportato  condanne  per  un  identico  titolo  di  reato
 (quale,  in particolare, un delitto contro la fede pubblica), subendo
 gli uni, e non invece gli altri, l'effetto automaticamente preclusivo
 all'assunzione derivante dalla  norma  residuata  all'abrogazione  da
 parte delle pronunzie costituzionali.
   Ed  e'  appena  il  caso di rilevare che, tra i due settori posti a
 raffronto, sarebbe stato se mai ragionevole mantenere una  disciplina
 di  maggior  rigore  e  garanzia  per  l'accesso all'impiego statale,
 anziche'  per  quello  locale,  in  esatta  antitesi  con   l'assetto
 normativo  scaturito  dagli  interventi  caducatori  della Corte, fin
 tanto che il legislatore del 1990 non e' intervenuto a porvi rimedio,
 rendendo nuovamente omogenee le rispettive discipline di settore.
   Anche  sotto  tale aspetto deve quindi ritenersi non manifestamente
 infondata la questione di legittimita'  costituzionale  dell'art.  8,
 alinea n. 7, del T.U.L.C.P., in relazione agli artt. 3, primo comma e
 51, primo comma Cost., stante l'evidente ed ingiustificata disparita'
 di  trattamento  penalizzante  - nell'arco di tempo considerato - gli
 aspiranti ad impiego presso ente locale, quale l'odierna  appellante,
 rispetto agli aspiranti ad impiego statale.
   6.  -  Quanto  alla  rilevanza delle prospettate questioni, vengono
 integralmente richiamate e ribadite le considerazioni gia' sviluppate
 dalla precedente ordinanza di rimessione di questa  sezione,  che  la
 sentenza n. 249/1997 della Corte ha ritenuto condivisibili.
   Poiche',  infatti,  la  sentenza  parziale  n.  537/1996  di questa
 sezione,   nel   riformare   la   decisione    di    inammissibilita'
 dell'originario  ricorso  resa  in  primo  grado  dal  t.a.r.,  si e'
 altresi' pronunziata negativamente sulla principale doglianza dedotta
 con il terzo motivo  di  ricorso,  affermando  l'applicabilita'  alla
 fattispecie  in esame dell'art. 8, alinea n. 7, del T.U.L.C.P., cosi'
 come motivatamente ritenuto dall'impugnato provvedimento  dell'organo
 di  controllo,  ne  discende  che soltanto l'eventuale caducazione di
 detta norma per effetto di una pronunzia della Corte che  ne  ravvisi
 l'incompatibilita'  con  il dettato costituzionale puo' consentire un
 esito favorevole del giudizio per l'odierna appellante.